Il 24 agosto 79 d.C. l’eruzione del Vesuvio che distrusse città e vite

POMPEI. La tradizione dei fatti vuole che la data dell’eruzione del Vesuvio sia il 24 agosto del 79 d.C. Dopo anni di silenzio della montagna, una colonna di gas, ceneri e lapilli si proiettò in aria per chilometri causando buio in tutto il territorio circostante.

Subito dopo, il dramma. Su Pompei, Ercolano, Stabiae, Oplontis e altri centri vicini, si abbatterono piogge di materiali piroclastici che sommersero e distrussero le città (nella foto di copertina la ricostruzione dell’eruzione nel film “Pompeii” del 2014, ndr).

Echi di questa terribile tragedia ci appaiono, dopo secoli, dagli scavi borbonici delle città di Pompei ed Ercolano e soprattutto dai calchi in gesso realizzati successivamente dall’archeologo Giuseppe Fiorelli che ne ha immortalato l’attimo successivo alla morte, consegnando ai posteri i volti e le storie di coloro che cercarono di sfuggire, impotenti, alla tragedia che li aveva colpiti.

Sono tanti gli scrittori antichi che ci hanno tramandato il ricordo della terribile eruzione vesuviana, tra questi Plinio il Giovane che racconta all’amico Tacito degli attimi immediatamente successivi alle prime avvisaglie della “montagna” e dello zio Plinio il Vecchio, il famoso naturalista comandante della flotta a Capo Miseno, chiamato a portare aiuto ai cittadini.

La maggior parte della popolazione non sopravvisse, molti morirono già durante le prime fasi di crollo dei tetti delle proprie abitazioni e a causa degli incendi che man mano si svilupparono. Quanti poi si erano attardati per prestare soccorso ad amici o parenti o a cercare di salvare i propri effetti personali, furono travolti dalla nube tossica che li asfissiò in una crudele agonia, causata dal micidiale mix di cenere vulcanica mista ai gas che si infiltrò nelle vie respiratorie e si depositò sui corpi, aderendo intimamente alle forme e alle pieghe degli abiti.

Ad Ercolano, quanti non si erano ancora dati alla fuga, furono vittime della spaventosa fiumana di fango vulcanico provocato dallo squarcio del Vesuvio. Nemmeno il mare in quel momento poteva aiutarli nella fuga. Un violento maremoto impedì alle imbarcazioni nel porto di prendere il largo così come ai soccorritori di Miseno di portare aiuti, decretando di fatto la morte degli ercolanesi. In due giorni si compì una delle tragedie più brutali della storia, vivida ancora nelle espressioni dei morti divenuti calchi, ultimi testimoni capaci di raccontarci in un solo sguardo, o in una posa del corpo, il tragico evento.

Pochi giorni dopo il disastro, i sopravvissuti e forse molti sciacalli, cercarono di recuperare quanto possibile penetrando negli edifici rimasti a vista, ma tale impresa si rivelò spesso difficile a causa del pericolo crolli e della fitta coltre di ceneri che impedivano di localizzare case ed edifici.

Ad Ercolano, che venne sommersa dalla coltre fangosa, il recupero fu addirittura impossibile perché il materiale vulcanico, raffreddatosi, aveva assunto una consistenza dura simile a roccia. La presenza umana rimase per anni sporadica nelle zone colpite dal dramma, solo tra il 120-121 d.C., sotto l’imperatore Adriano, fu possibile ripristinare l’assetto viario della regione.

Tra gli studiosi moderni, però, rimangono ancora molti interrogativi, uno di questi è l’esatta datazione dell’eruzione. Punto di dibattito è il mese che, nei codici medievali che riportano la lettera di Plinio il Giovane, slitta alle calende di novembre, facendo ipotizzare quindi ad un’eruzione autunnale.

A districare l’arcano ci può venire in aiuto solo il dato archeologico che, tuttavia, non tende ad escludere nessuna delle due ipotesi. Un altro storico antico, Cassio Dione, parlando dell’eruzione dice che «In quel tempo accaddero delle cose orribili nella Campania, che sono veramente meravigliose. Infatti nell’autunno si accese repentinamente un grande incendio…» . 

Il ritrovamento di bacche di alloro, castagne, noci, fichi secchi e una grande quantità di melagrane farebbero propendere per un’eruzione autunnale, così come la vendemmia già ultimata in una villa rustica di Boscoreale, Villa regina. Nel cortile dell’edificio, i dolia per il mosto, erano giù chiusi e sigillati, segno che la vendemmia era già avvenuta.

C’è da dire, però, che funziona anche la tesi dell’eruzione estiva. I dolia interrati e le anfore chiuse e pronte al commercio avrebbero potuto contenere, invece del vino, altre sostanze, oppure vini non destinati alla tavola o vini a lungo invecchiamento.

Così come la frutta secca potrebbe essere stata una giacenza dalla precedente stagione; le noci potrebbero essere state raccolte verdi e consumate fresche e non secche, e le melagrane raccolte verdi in modo da rallentarne il processo di maturazione per poi usarle per preparati medici oltre che per consumo alimentare. Anche la botanica propenderebbe per una datazione estiva; come prova, sono state trovate oltre duecento specie erbacee, arbustive e arboree di cui si sarebbero conservati sia i pollini, sia parte di fusti e foglie.

Non sembra ci siano motivi, poi, per modificare il testo di Plinio, tanto più che questi, descrivendo le attività dello zio il giorno dell’eruzione, ricorda tra l’altro che dopo pranzo aveva fatto un bagno di sole e poi d’acqua fredda, attività che, come riporta un’altra lettera (Epist., III 5, 10-11) sono tipiche della stagione estiva.

Inoltre, il viaggio per mare di Plinio il Vecchio, compiuto con le navi partendo da Miseno nel pomeriggio e approdando a Stabiae verso il tramonto, dopo aver tentato di raggiungere Ercolano, ben si addice ad una tipica giornata estiva e non ad una corta di un mese autunnale.

Quale la data, quindi? Finora nessuna scoperta archeologica è stata così determinante da portare una prova certa di una eruzione in estate o in autunno. Tuttavia, le due ipotesi, possono assolutamente reggere in entrambi i casi. Quello che è certo è la proporzione della catastrofe che in poche ore ha distrutto intere città e migliaia di vite.

“Ecco il Vesuvio, che ieri ancora era verde delle ombre di pampini:
qui celebre uva spremuta dal torchio aveva colmato i tini.
Questa giogaia Bacco amò più dei colli di Nisa:
su questo monte ieri ancora i Satiri eseguirono il girotondo.
Qui c’era la città di Venere, a lei più gradita di Sparta;
qui c’era la città che ripeteva nel nome la gloria di Ercole.
Tutto giace sommerso dalle fiamme e dall’oscura cenere:
gli dei avrebbero voluto che un tale scempio non fosse stato loro permesso”
Marziale, Ep. IV, 44
Alessandra Randazzo

Alessandra Randazzo

Classicista e comunicatrice. Si occupa di beni culturali per riviste di settore.

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