Ecco come funzionava una lavanderia di duemila anni fa a Pompei

POMPEI. L’attività di una fullonica era una delle più redditizie per quanto riguarda l’economia dell’antica Pompei. Diverse erano sparse per la città, ma le due più importanti si trovavano su due degli assi viari principali: via dell’Abbondanza e via Stabiana, che ci permettono di conoscere anche i nomi dei proprietari, Stephanus e Veranius Hypsaeus.

Ma cos’è una fullonica? Oggi potremmo chiamarla “lavanderia”, ma l’articolazione interna dei vari passaggi è ben più complessa. Si trattavano non solo vesti usate che venivano portate a lavare, ma l’attività della fullonica si concentrava soprattutto nel lavaggio di vesti e tessuti nuovi, appena lavorati, che dovevano splendere per poi essere esposti e venduti al mercato.

A volte questi venivano anche tinti: si sa, infatti, che il colore nell’abbigliamento romano era sinonimo di ricercatezza ma anche possibilità di seguire la moda del momento. Economicamente non era costoso portare un vestito in lavanderia, il lavaggio costava un danario e gli affari dovevano girare abbastanza bene se si pensa che l’affitto annuo di una fullonica arrivava ad essere di 1.652 sesterzi.

La prima fase prevedeva il ripulire il tessuto: questo avveniva in una vasca di forma ovale e gli schiavi pestavano con i piedi in un misto di acqua, soda e… urina! La fullonica si sa, non era di certo un luogo profumato, ma l’urina umana o animale era molto ricercata per questo lavoro. La quantità richiesta era cospicua ogni giorno e la più pregiata sembrava essere quella di dromedario, che addirittura veniva portata dall’Oriente.

Però non potendone farne arrivare una quantità tale per tutto il lavoro necessario, agli angoli della strada spesso venivano messe delle anfore con un’apertura laterale dove chiunque poteva “depositare”; regolarmente poi passava uno schiavo della fullonica a ritirare il contenuto.

Ai tempi dell’imperatore Vespasiano aveva fatto scandalo la tassa sull’urina usata dalle tintorie, tanto che le voci di protesta arrivarono fino all’imperatore, che pronunciò la famosa frase “Pecunia non olet” (“I soldi non puzzano”), proprio perché l’utilizzo fruttava molto.

Terminato il lavaggio, su vasche messe a livelli diversi e comunicanti fra loro a cascata, i panni pigiati prima venivano sciacquati con cura per eliminare ogni traccia di ciò che si era usato. Anche qui le sostanze utilizzate erano importate; per questa fase si prevedeva l’uso di argilla smectica del Marocco, oppure dell’isola di Ponza e continuava così il lavaggio e la battitura per rendere la trama dei tessuti più compatta.

A questo punto non restava che “stendere i panni” e l’ampio terrazzo sembrava essere il luogo più adatto. Lì avveniva anche la zolfatura, in cui i panni bianchi, per risultare più splendenti, venivano stesi sopra un piccolo braciere ingabbiato da canne (vimea cava) che emanava esalazioni.

Ultimo passaggio non poteva che essere la stiratura, sotto grandi presse a vite: i panni dovevano assolutamente risultare privi di pieghe! Ancora oggi, passeggiando per la Regio I (6,7) è possibile ammirare uno dei luoghi dove avveniva tutto ciò, proprio nella Fullonica di Stephanus (foto in pagina).

La corporazione dei fullones ricopriva un ruolo molto importante all’interno della vita economica e politica della città di Pompei, come mostrano le numerose iscrizioni elettorali, visibili anche nell’officina di Stephanus, e la dedica della statua di Eumachia nell’edificio fatto costruire da lei stessa nel Foro.

La corporazione era dotata anche di un animale totem, l’ulula (la civetta) sacra a Minerva. Stephanus non sopravvisse alla catastrofe del 79 d.C. Il suo corpo venne ritrovato al momento dello scavo della domus presso l’ingresso; portava con sé un gruzzolo di monete, l’ultimo incasso di una ricca giornata lavorativa.

Alessandra Randazzo

Alessandra Randazzo

Classicista e comunicatrice. Si occupa di beni culturali per riviste di settore.

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