Pompei, in mostra la moneta che potrebbe risolvere il “giallo” sulla data dell’eruzione

È possibile osservare da vicino il celebre “denario di Tito” che riporterebbe la scritta “IMP XV”, ovvero la “salutatio imperatoria” avvenuta dopo il 24 agosto del 79 d.C.

POMPEI. Tra i tanti interrogativi riguardanti l’antica Pompei, ultimamente, grazie anche alla mostra “Tesori sotto i lapilli” inaugurata all’Antiquarium degli Scavi lo scorso 11 settembre, è ritornata in auge la questione della data dell’eruzione del Vesuvio che distrusse città e vite. Tra i reperti in mostra, infatti, vi è anche il famoso denario d’argento di Tito, ritrovato nella Casa del Bracciale d’oro assieme ad altre monete d’oro e d’argento accanto al corpo di un fuggiasco, che riporterebbe la scritta “IMP XV”.

Cosa significa? È una abbreviazione con la quale si celebrava, in seguito ad una vittoria militare, la quindicesima volta in cui Tito venne nominato imperatore. Si tratta della cosiddetta “salutatio imperatoria”: le truppe acclamavano il proprio comandante e chiedevano al Senato la giusta attribuzione di onori. Questo particolare momento della vita di Tito ha una data ben precisa perché sappiamo, grazie ad una lettera dello stesso imperatore ai decurioni della città di Munigua, che Tito venne acclamato per la quindicesima volta imperatore solo dopo l’8 settembre del 79 d.C. Di conseguenza, secondo il reperto, l’eruzione non può essere avvenuta d’estate (nella tradizionale data del 24 di agosto), ma in autunno.

Ma qual è quindi la vera data dell’eruzione? C’è da dire che la rovinosa distruzione delle città vesuviane non fu un evento passato in sordina all’epoca dei fatti. Sono molti gli scrittori, infatti, che ci hanno tramandato il ricordo dell’eruzione del 79 d.C.; tra i più importanti si ricordano Cassio Dione (Storia di Roma, LXVI 21-23 con la relativa epitome di Zonara XI 18), Eusebio di Cesare (Chronicon, a.5280), Flavio Giuseppe (Ant.Iud. XX 7,2) e Tacito (Hist. I2; Ann. IV 67).

Il racconto più attento e impressionante ci viene però da un diretto testimone degli eventi, Plinio il Giovane, che poté assistere all’eruzione da Miseno, dove si trovava insieme alla madre, al seguito dello zio Plinio il Vecchio, il famoso naturalista e ammiraglio della flotta che era lì di stanza. In due lettere scritte all’amico Tacito egli, con dovizia di particolari, descrive le vicissitudini dello zio, anche lui vittima illustre dell’eruzione mentre con le navi cercava di portare soccorso alle popolazioni colpite dalla furia del vulcano.

Analizzando i documenti, la data dell’eruzione sembra concorde per tutti; quanto al mese, invece, gli studiosi sono in disaccordo. Nei codici più accreditati di Plinio il Giovane, molti studiosi leggono “nonum Kal. Septembers”, ossia il 24 agosto; altri, che si basano su una versione deteriore dei codici, reperibili solo nelle opere a stampa della fine del Quattrocento o degli inizi del Cinquecento, leggono “Novemeber Kl.”, ipotizzando quindi una datazione in pieno autunno. Tralasciando in parte i problemi filologici dei codici pliniani, non abbiamo a disposizione la lettera originale di Plinio, ma solo codici tramandati con relativi errori di copiatura.

Qual è allora la data corretta? L’unico approccio diretto sarebbe quello del dato archeologico, che però vede diversi studiosi schierarsi dall’una o dall’altra parte. Tra le “prove” in favore della tesi autunnale c’è il ritrovamento di bracieri all’interno di alcune domus come quella del Menandro o quella dei Casti Amanti. È plausibile che le temperature fossero basse, dato che sarebbe confermato anche dal tipo di vestiti che indossavano le vittime. Naturalmente si parla di rinvenimenti sporadici e non sistematici, non sappiamo come fossero vestiti tutti i pompeiani morti, abbiamo solo poche indicazioni in base ai rinvenimenti.

La colonna eruttiva e i gas emessi avevano oscurato il sole, provocando un netto abbassamento della temperatura e gli abitanti avrebbero potuto indossare vestiti pesanti proprio per ripararsi dall’improvviso freddo, dal vento e dall’incessante pioggia di lapilli. Alcuni studiosi come Grete Stefani, attuale direttrice dell’Ufficio Scavi di Pompei, e Michele Borgongino, archeobotanico degli Scavi di Pompei, hanno svolto approfondite ricerche e realizzato molte pubblicazioni sulla tesi autunnale dell’eruzione, basandosi anche sui documenti di Cassio Dione, il quale scrisse che l’eruzione avvenne in autunno, nove giorni prima delle calende di dicembre quindi, il 23 novembre del 79 d.C.

Ma gli indizi non finiscono qui. Presso il Museo archeologico di Napoli sono conservati diversi frutti tipicamente autunnali ritrovati nei vari siti vesuviani come le bacche d’alloro, le castagne e le noci, cospicue quantità di fichi secchi, prugne secche, datteri e melegrane. In una villa di Oplontis sono stati trovati ben 10 quintali di melagrane, messe a seccare tra quattro strati di stuoia intrecciate. La raccolta doveva avvenire proprio tra settembre e ottobre, prima della stagione delle piogge, e poi il frutto veniva messo a maturare in un ambiente protetto. Ma c’è dell’altro. A Villa Regina (Boscoreale), la vendemmia era già stata ultimata; nel cortile interno dell’azienda agricola sono stati trovati un gran numero di dolia per il mosto già chiusi e sigillati.

Naturalmente anche la tesi estiva ha un gran numero di sostenitori, capaci di dare altrettante prove plausibili, come per la tesi autunnale. Per i bracieri ritrovati all’interno delle domus si è data una spiegazione di tipo rituale, anche se solitamente per questa funzione erano presenti nelle case tanti piccoli altari dedicati ai Lari; i dolia interrati e sigillati avrebbero potuto contenere non vino ma altre sostanze, oppure vino a lungo invecchiamento, ed è possibile anche che la vendemmia sia stata anticipata nel cuore dell’estate rispetto ai mesi in cui di solito siamo abituati ad immaginarla.

Per quanto riguarda la frutta, i fichi secchi potrebbero essere giacenze della precedente raccolta, così come le noci potrebbero essere state consumate fresche e non secche; le melagrane è possibile che venissero staccate dagli alberi non ancora mature in modo da rallentarne la maturazione e consentirne così il disseccamento sulle stuoie. A sostegno dell’eruzione avvenuta in agosto, anche la presenza di oltre 200 specie erbacee, arbustive e arboree di cui si sarebbero conservati i pollini e le foglie.

Come si evince, i sostenitori di entrambe le tesi hanno da sempre portato validi motivi a proprio favore. Può quindi la moneta di Tito essere l’unico dato “certo” che chiude definitivamente la questione a favore di un’eruzione autunnale? Purtroppo no. La scritta sulla moneta è molto ossidata e rovinata da tempo, di conseguenza la lettura non è così chiara e inequivocabile. Per onestà scientifica, non essendoci una tesi prevalente sull’altra in maniera predominante, lasciamo aperta la data dell’eruzione in attesa di un qualsiasi nuovo dato archeologico che sarà in grado di rispondere ai tanti interrogativi che ancora oggi Pompei e le altre città vesuviane sembrano nascondere.

Alessandra Randazzo

Alessandra Randazzo

Classicista e comunicatrice. Si occupa di beni culturali per riviste di settore.

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