Archeologia del pane: ecco come si faceva nell’antica Pompei
Illustrati i risultati delle indagini archeologiche avviate dal Centro Jean-Bérard in alcuni dei 42 panifici della città antica
POMPEI. L’archeologia della tecnica di produzione del pane spiega i motivi del graduale passaggio della sua produzione dall’economia domestica a quella di scambio, considerato che nell’antico il commercio del cibo è stata la prima produzione sistematica che ne ha sviluppato l’attività.
Insieme alla produzione di cibo e vino sono partiti altri settori fondamentali che insieme hanno formato il mercato delle merci del foro di Pompei. Considerazione alla base dell’iniziativa delle istituzioni culturali francesi, come il Centro Jean-Bérard, nella collaborazione con il Parco Archeologico di Pompei nel progetto “Pistrina – Ricerche sui panifici dell’Italia romana”.
All’epoca dell’eruzione 9 di essi erano formati da forni interni alle domus, spesso nei sotterranei (Casa del Menandro, Casa del Criptoportico, Casa di Giuseppe II, Casa del Centenario).
I panifici attivi si servivano di almeno una macina per fare la farina. Quelli che ne erano sprovvisti partecipavano alla catena produttiva dallo stadio successivo alla macinazione del grano.
Tra gli alimenti dell’antica Roma il pane è quello più documentato da fonti letterarie, affreschi e bassorilievi. La conoscenza scientifica è frutto, invece, delle analisi delle pagnotte carbonizzate trovate a Pompei.
Da Plinio il Vecchio abbiamo appreso che il pane entrò tardi nell’alimentazione dei Romani che originariamente si cibavano di focacce non lievitate e zuppe di cereali selvatici e leguminose. Raramente, carne.
I primi pani erano a base di legumi. Il cereale prima utilizzato nella produzione del pane è stato il farro, da cui discende il termine “farina” intesa come prodotto della macinazione dei cereali. Il blé (grano) proveniente dalla Sicilia e dall’Africa si affermò negli anni successivi. L’uso dei mulini ne agevolò la macinazione.
Esistevano numerosi tipi e formati di pane, a seconda dei loro differenti usi, impasti e metodi di cottura. Man mano che le tecniche di macinatura e setacciatura della farina e la preparazione e cottura del pane si complicarono, la sua produzione lasciò l’ambito familiare per diventare un mestiere come gli altri.
Nella catena di produzione del pane si partiva con l’umidificazione del grano (con acqua e sale) prima della molitura: lo scopo era di ottenere una farina più bianca. Seguivano la macinazione del grano, l’impasto della farina con acqua e lievito, la lievitazione della pasta, la sua levigazione e la creazione delle pagnotte che venivano infornate per la cottura.
Gli studi delle tecniche hanno riguardato la forma degli ambienti in cui si panificava, le diverse strutture dei forni, le stanze di lavorazione, gli utensili di pietra, come le macine e i ciotolai, le macchine di legno come le impastatrici, le tavole per l’impasto e i recipienti in bronzo come gli scalda-acqua.
Fondamentale è risultato lo studio dei punti di usura delle macine che è servito a studiarne le manovre e il loro funzionamento. I forni erano spesso inseriti su muri preesistenti. Erano creati con coperture a volta e muniti di sostegni laterali in pietra che fungevano da tavole, su cui il pane riposava prima dell’infornata, mentre l’ambiente a sinistra del tablino era la cucina.
Le iscrizioni presenti sulle macine di pietra lavica erano veri e propri marchi di fabbrica. La parte superiore della macina era azionata da un cavallo o da una asino ma, in alcuni casi, anche dalle braccia degli schiavi. Le macine arrivavano a Pompei dal centro di produzione di Orvieto.
L’impastamento era meccanico, ma dai buchi di palo rinvenuti in un panificio si è dedotto che esisteva anche l’impastamento manuale raffigurato anche in un bassorilievo romano. L’architettura dei forni dipendeva dalle esigenze tecniche anche se ogni forno rappresenta un caso a se stante, dipendente dal suo inserimento nell’habitat originario.
In ogni caso le indagini archeologiche hanno fatto capire che vige nella struttura dei panifici una razionalità di base collegata, per esempio, all’approvvigionamento idrico ma anche all’areazione, così come è funzionale la vicinanza dei forni alla stanza di lievitazione, dove un buco alla sua parete consente la trasmissione del calore che serve alla lievitazione dell’impasto.
I noccioli di ulive erano utilizzati come combustibile dei forni (insieme agli arbusti) a causa dell’alto potenziale di calore che creavano, occupando poco volume. Dagli affreschi di Pompei si hanno notizie sui commerci del pane come quello che mostra un tipico momento di vita cittadina. Vi si vede un fornaio impegnato a vendere pane ai clienti.
Nel corso del II secolo a.C. il lavoro dei fornai sostituì la produzione nelle domus. Nel I secolo a.C. a Pompei si potevano contare decine di forni perfettamente attivi, costituiti da grandi macine in pietra lavica, azionate da schiavi o asini.
Il banco di vendita non era una costante dei panifici dell’epoca che spesso si servivano di ambulanti. Il pane era venduto in pagnotte tonde già suddivise in spicchi per facilitarne il taglio e un marchio impresso sulla loro superficie ne pubblicizzava il produttore.
Il termine “pistores” utilizzato per i servi adibiti alla triturazione del farro fu utilizzato successivamente come appellativo dei fornai. All’inizio diventarono panettieri liberti e pompeiani di basso ceto che successivamente si arricchirono e crearono una potente corporazione (“collegium pistorum”) che ottenne privilegi e immunità.
Le scritte elettorali sulle mura di Pompei dimostrano che i panettieri davano indicazioni di voto ai cittadini mentre il pane era considerato bene di lusso e gradito dono per i clientes nel voto di scambio che già a quell’epoca era diffuso a Pompei.