Gustatio, mensa prima, mensa secunda: com’era un banchetto nell’antica Pompei
POMPEI. Da che mondo è mondo il procacciamento del cibo, la conservazione, la trasformazione e il consumo dello stesso hanno sempre rappresentato un aspetto fondamentale della vita quotidiana: tanto è vero che queste fasi, con il passare dei secoli, sono diventate via via più complesse.
È chiaro, infatti, che nella Pompei di duemila anni fa i ritmi e i procedimenti alimentari fossero relativamente più semplici dei nostri, scanditi sicuramente più di oggi dall’alternarsi delle stagioni: il consumo di prodotti della terra, quindi frutta e verdura, e di quelli di origine animale, come carni, uova, formaggi, ecc. s’inseriva nel quadro di un’alimentazione senza dubbio ricercata nel gusto, ma fortemente legata ai cicli della natura.
Insomma indagare le abitudini alimentari della Pompei antica significa un po’ anche andare alle origini di quella che oggi tutti conoscono come dieta mediterranea. Uno studio recente realizzato dalla Coldiretti, l’organismo che rappresenta e difende gli interessi dell’agricoltura italiana, ha riassunto in pochi concetti-chiave quella che era una giornata-tipo sulle tavole dell’antica Pompei o di una qualunque città appartenente al mondo romano dell’epoca.
La mattina appena alzati, solitamente all’alba, i pompeiani facevano una prima colazione (jentaculum) a base di pane con aglio e formaggio, oppure con datteri, uova, miele, frutta e a volte anche carne, dal momento che la colazione costituiva uno dei due pasti principali della giornata. A volte i cibi del jentaculum erano gli avanzi che ogni invitato aveva il diritto di portare via dal banchetto della sera precedente.
I bambini, andando a scuola, potevano fermarsi lungo la strada e comprare pane o biscotti appena sfornati (adipata) presso uno dei tanti forni presenti in città. A metà giornata, verso mezzogiorno, seguiva uno spuntino leggero (prandium) tanto per arrivare non troppo affamati all’ora della cena. Era in genere un pasto freddo e rapido con legumi, pesce, uova e frutta.
Così come in tutto il mondo romano, anche a Pompei il pasto principale era costituito dalla cena, più o meno abbondante, consumata ad iniziare dal pomeriggio, tra le due e le tre, dopo essersi recati alle terme. Dopo la cena seguivano le bevute in un triclinio con il vino, che era la bevanda più diffusa e veniva prodotto in due qualità: bianco e rosso, tagliato con acqua e aromatizzato con miele, spezie o erbe.
I vini che accompagnavano la portata principale del pasto (mensa prima) venivano filtrati e conditi con spezie (vino conditum) e diluiti con acqua; per il dessert, invece, c’era la dolcezza del vino passito (vino passum). Tra le bevande economiche, invece, la più diffusa era la pòsca, costituita da aceto diluito in acqua: si otteneva così una sorta di bibita acidula, considerata dissetante, che era molto diffusa soprattutto tra il ceto degli schiavi.
Le stoviglie usate a tavola erano rappresentate soprattutto da ciotole, brocche, bicchieri. Normalmente si mangiava con le mani perché non esistevano le forchette, ma sono stati rinvenuti cucchiai e coltelli. Per questo ai commensali venivano serviti anche dei catini colmi d’acqua, che veniva utilizzata per lavarsi le mani dopo aver toccato i cibi.
I commensali si stendevano sui letti tricliniari e, appoggiato il gomito ai cuscini, davano inizio al convivium che si apriva con abbondanti antipasti (gustatio) cui facevano seguito i piatti forti (mensa prima) e, a chiusura, il dessert (mensa secunda) in genere a base di frutta e dolci. Il cellarius (il cui compito era simile a quello di un odierno sommelier) soprintendeva alle bevande facendo portare una sorta di aperitivo chiamato mulsum, che era costituito da vino cui venivano aggiunti miele e spezie.
Nelle classi medio-alte, riporta sempre lo studio della Coldiretti, il cibo non aveva solo la funzione di nutrire, ma era simbolo di una condizione sociale privilegiata, dove l’opulenza della mensa costituiva segno di prestigio sociale. Ai ricchi era riservata la prerogativa del banchetto che diventava, così, il momento più importante della giornata.
Esso si svolgeva secondo una precisa ritualità che era la medesima a Roma e nelle altre città dell’impero. I cibi più ricercati erano preparati con la massima cura dai cuochi e nelle più ricche dimore non potevano mancare strutture per l’allevamento di pesci (piscinae), di uccelli selvatici (aviaria) nonché di selvaggina (leporaria).
Anche per le famiglie più povere la cena costituiva l’unico pasto della giornata, ma quasi sempre era l’unico. Gli strati inferiori della popolazione consumavano cibi e bevande estremamente semplici, cibandosi di pane nero di qualità scadente (panis plebeius), qualche volta di formaggio e raramente di carne, più spesso di piccoli pesci poco pregiati, salati e conservati (gerres, menae), economicamente accessibili. Tra le verdure, quelle meno costose erano i cavoli e i porri. Appartenevano al ricettario della cucina povera salse fatte con erbe pestate e condite con olio.
Plinio il Vecchio classificò circa 1.000 piante commestibili, con le quali si producevano vari tipi di lattuga, cicoria, cipolle e aglio, broccoli di rapa, basilico, carote, crescione, porri, meloni, piselli, ceci, lenticchie, noci, nocciole, mandorle e diversi tipi di frutta fresca: mele, melograni, pere, uva e fichi. I pompeiani fecero in tempo a conoscere anche le ciliegie, le albicocche e le pesche, le cui piante furono importate a Pompei qualche anno prima della catastrofica eruzione vesuviana del 79 d.C.
Immancabile sulle tavole dei pompeiani era il “garum”, una sorta di colatura di alici, ancora oggi molto diffusa in Campania, che si preparava con le interiora delle sardine: esse venivano mescolate con pezzi di pesce sminuzzati, uova di pesce e uova di gallina. Il tutto, poi, veniva lasciato al sole e nuovamente pestato per essere trasformato in una poltiglia omogenea.
Dopo sei settimane di fermentazione, il prodotto ottenuto, detto liquamen, veniva posato in un cesto dal fondo bucato e mentre un residuo (considerato commestibile e noto col nome di hallec o faex) colava dal cesto, vi rimaneva il prodotto finito che era il “garum” vero e proprio, con declinazioni diverse a seconda della varietà di pesce utilizzato.
Al garum, talvolta si aggiungeva vino o aceto, ottenendo, rispettivamente, l’enogarum o l’oxygarum. Menzionato dalle fonti, l’hallec era una salsa pastosa, una sorta di paté con l’aggiunta di aromi, e veniva consumata con spezie; questa salsa era il prodotto intermedio ottenuto durante il processo produttivo che avrebbe dato come prodotto finale il garum, un composto prelibato e parte integrante della dieta pompeiana.
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