Il sito archeofluviale di Lòngola: una Venezia di oltre 3500 anni fa
È stata la più straordinaria scoperta di archeologia preistorica dell’Italia meridionale, capace di riscrivere la storia della Campania pre-romana
POGGIOMARINO. La nostra meta è Poggiomarino, anzi la campagna di Poggiomarino e, più precisamente, la località agreste di Lòngola. Là dove l’agglomerato urbano di Poggiomarino, paesone senza una precisa “facies urbana”, fatto di case e basta, spalmate nel cuore dell’agro sarnese sulla sua piatta campagna, nera e ricca di humus, resa particolarmente fertile prima dal Vesuvio e poi dal fiume Sarno, che la nutre con le sue falde acquifere poco profonde. E proprio il Sarno, è il protagonista indiretto della vicenda di Lòngola.
La storia, anzi la cronaca – trattandosi di avvenimenti degli ultimi anni conclusisi negli ultimi giorni – è in breve questa. Uno dei grandi impianti di depurazione progettati per il Sarno doveva sorgere proprio a Lòngola. L’attuazione del programma della depurazione del Sarno fu affidato direttamente ai Prefetti per superare in forma commissariale le difficoltà burocratiche e politiche di un intervento del genere. Tutti i Comuni solcati dal Sarno ne avevano bisogno, ma nessuno lo voleva nel proprio territorio, secondo il più tipico degli atteggiamenti “Nimby”: “Not in my back yard!”, ovvero “Non nel mio giardino!”, per farla breve.
Superate comunque tutte le difficoltà si era dato inizio ai lavori e si andava avanti. Ma… ecco l’imprevisto. Dalle trivellazioni in corso per fare le palificate in cemento armato per le fondazioni emergevano pezzi di legno, pietre lavorate, frammenti ceramici a centinaia e altro materiale tipico dei siti archeologici. Insomma, a mezza strada tra Poggiomarino e Sarno, dove pomodori, cipolle e broccoli di prima qualità erano i protagonisti, emergeva dal sottosuolo fangoso un insediamento antico, molto antico. La osservazione la condusse una valente archeologa preistorica francese, napoletanizzatasi da decenni per matrimonio: Claude Livadie. Per la classica soffiata di un appassionato di archeologia dilettante.
Fu avvisata la Soprintendenza archeologica di Pompei, allora diretta da Piero Guzzo. I lavori furono sospesi temporaneamente e si effettuarono alcuni saggi archeologici nel terreno, i quali confermarono le osservazioni dell’esperta. Dalla campagna di saggi, affidata a chi scrive, per la valutazione preventiva dei costi, si passò quindi a una vera e propria campagna di scavo archeologico. Il conseguente braccio di ferro tra Ministero dell’Ambiente e quello dei Beni Culturali, risultò favorevole a quest’ultimo, tra mille polemiche, sopite però dall’importanza dei ritrovamenti. Si stava assistendo alla più straordinaria scoperta di archeologia preistorica dell’Italia meridionale.
E ciò, in un territorio – quello pedevesuviano – famoso fino a quel momento soprattutto per la archeologia romana o, meglio, per la archeologia vesuviana, cioè quella emergente dalle coltri vulcaniche vomitate dal Vesuvio con la sue eruzione più famosa, quella pliniana del 79 dopo Cristo. Insomma una scoperta che valeva doppiamente, capace di riscrivere la storia della Campania pre-romana, generalmente poco indagata fino al ritrovamento del sito protostorico di Lòngola. Ma c’era da portare avanti l’eccezionale sito preistorico di Poggiomarino, con il suo carico altrettanto eccezionale di problemi: scientifici, tecnici ed operativi.
(1 – continua)