Oltre 5mila preziosi reperti archeologici ritornano a Pompei dopo trent’anni
di Antonio Irlando*
POMPEI. Mentre la direzione del Parco archeologico di Pompei ha di recente presentato il ritrovamento di una nuova villa romana (con rari oggetti che si usavano duemila anni fa e anche un letto di legno), si scopre che la vecchia burocrazia degli Scavi ha contribuito, per oltre 30 anni, a seppellire sotto uno spesso strato di inefficienza ben 5.255 reperti archeobotanici, archeozoologici e minerali che sono stati letteralmente dimenticati presso lo Smithsonian Institute di Washington a cui furono prestati, a partire dal 1980, per essere analizzati e studiati.
Si tratta di ossa animali, gusci di lumache e frutti di mare, reperti vegetali, frammenti di legno e campioni di pigmenti usati per i colori degli affreschi che decoravano domus ed edifici pubblici di Pompei, tra cui la preziosa porpora usata per creare la tinta «rosso pompeiano» che caratterizza le più belle pitture di scuola romana.
Tutto il materiale proveniva prevalentemente da Pompei, dalla casa di Marco Fabio Rufo, dalle ville di Oplontis e da quelle di Boscoreale e Terzigno. Un tesoro immenso che se, dall’altra parte dell’oceano fossero stati meno efficienti e onesti, sarebbe andato perso. Un tale materiale che poteva benissimo essere l’attrattiva di un museo privato che, siamo sicuri, in America avrebbe fatto fior di visitatori e di milioni.
Ma fortunatamente Jennifer Strotman, responsabile delle collezioni del dipartimento di Paleobiologia del Museo di Storia naturale di Washington, dove i reperti pompeiani erano sotto chiave in due armadietti, lo scorso anno ha scritto alla direzione del Parco Archeologico di Pompei comunicando la volontà del prestigioso Smithsonian Institute di restituire i reperti prelevati con i risultati delle analisi effettuate.
Enorme la sorpresa di Massimo Osanna, direttore generale dell’area archeologica, che ha ringraziato i colleghi americani e poi ha ricostruito la storia. Quei reperti erano stati totalmente dimenticati. La restituzione del “tesoro” è avvenuta nei giorni scorsi.
«Abbiamo così sanato un brutto capitolo della storia di Pompei – ha spiegato Osanna – arricchendola invece di un importante tassello per la conoscenza del paesaggio vesuviano e di una banca dati scientifica eccezionale che contiamo di completare con altro materiale che auspichiamo ritorni a Pompei da altri istituti a cui è stato affidato per ricerche negli ultimi 50 anni».
Con il materiale proveniente dagli Usa si rilancia l’attività di ricerca e conservazione in corso a Pompei dopo lunghissimi anni di abbandono, e si riconferma il ruolo strategico del Laboratorio di ricerche applicate del Parco archeologico per tutte le attività scientifiche di supporto interdisciplinare, necessarie per una moderna e rigorosa interpretazione dei dati dello scavo.
Il laboratorio è stato fondato nel 1994 ed è diretto dall’archeologa Alberta Martellone che si avvale della collaborazione, per l’attività di diagnostica, dell’architetto Bruno De Nigris e di sei specialisti in diversi segmenti di ricerca.
Ma c’è anche una bella scoperta: i pigmenti dei diversi colori restituiti dagli americani hanno confermato, attraverso le analisi, la tesi che il «rosso pompeiano» era il colore prediletto nelle case della città antica e che si ricavava esclusivamente da pigmenti naturali estratti principalmente dalla conchiglia «Murex».
Sembra così archiviata l’ipotesi fatta da alcuni archeologi che il rosso pompeiano non esistesse, ma che fosse, in realtà, arancione o giallo, trasformato poi con le alte temperature dell’eruzione in rosso. «Non è cosi – conferma categorica Martellone – il rosso di Pompei è un colore naturale, non il frutto di una magica trasformazione».
*Architetto, Presidente dell’Osservatorio per il Patrimonio Culturale
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