Che una storia triste, raccontata male, serva almeno ad insegnarci qualcosa
POMPEI. “Una ragazzina di 14 anni è stata brutalmente aggredita, probabilmente a scopo sessuale, e uccisa in un garage poco distante dal santuario di Pompei”.
È questa la notizia che riportavano alcune testate locali e nazionali il pomeriggio del 29 aprile 2021, poco dopo la morte di una giovane trovata in fin di vita in una traversa di via Carlo Alberto e trasportata invano all’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia.
È questa la notizia che ha sconvolto in pochi minuti una comunità intera, rimbalzando di cellulare in cellulare, di bacheca in bacheca, di bocca in bocca, fin quando, quasi magicamente, non se ne è più avuta traccia.
Poche ore dopo l’accaduto, tutti i siti web che avevano riportato il fatto avevano modificato la prima versione diffusa: la vittima non aveva 14 anni ma 23, ne avrebbe compiuti 24 il giorno dopo; l’aggressione, data praticamente per certa nei primi momenti, non c’era mai stata: gli inquirenti continuano a indagare ma l’ipotesi più accreditata è che la giovane si sia suicidata.
Com’è possibile che una storia cambi così tanto e così velocemente? Colpa di una fuga di notizie senz’altro figlia dei nostri tempi. Di un giornalismo che fa a gara a chi arriva primo e che per questo è disposto a sacrificare anche il dovere di verificare le fonti; un giornalismo così impegnato ad attirare click da rinunciare al condizionale in favore di titoloni sensazionalistici che meglio attirano l’attenzione.
Quello di G.S. – useremo solo le sue iniziali per non violentarne ulteriormente la memoria – non è di certo un caso isolato, ma dalla sua storia, a cui purtroppo nessuna tastiera potrà dare un epilogo diverso, si può quanto meno trarre l’occasione per riflettere sul ruolo e la responsabilità della stampa di fronte a una giovane vita spezzata.
Perché oltre alla diffusione prematura di una notizia, che si è poi rivelata tutta da verificare e probabilmente falsa e che ha contribuito ad accrescere il dolore di amici e parenti della vittima, c’è da dire che i tentativi di rimediare all’errore hanno avuto – in alcuni casi – risultati peggiori dell’errore stesso.
Quando l’ipotesi della violenza è passata in secondo piano rispetto alla pista suicida, infatti, molti sembrano aver pensato che c’era allora da spettacolarizzare ancora con più impegno se si volevano guadagnare le tanto agognate views.
Da qui descrizioni accurate di come e dove la ragazza si sarebbe uccisa, accompagnate da lunghi commenti sulla sua situazione psicologica e descrizioni di come il suo corpo era stato rinvenuto. Ma tutto questo era davvero necessario? È contemplato dal diritto di cronaca? Si tratta di informazioni di cui il lettore ha davvero bisogno?
Una ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato in maniera scientifica l’esistenza di una correlazione tra l’uscita di articoli relativi a suicidi e l’aumento di casi di suicidio nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione.
È per questo consigliato, quando si raccontano fatti del genere, evitare di condividere col pubblico tutti quegli elementi che possono facilitare il processo di emulazione. Tra questi ci sono i luoghi scelti, le armi utilizzate, le modalità con cui la vittima si è tolta la vita.
Da questo punto di vista, può essere d’aiuto un volume pubblicato dall’Ordine dei Giornalisti della Regione Toscana, in cui vengono elencati consigli e raccomandazioni che, come vedrete, nel caso di G.S. sono stati completamente ignorati:
1. cogli l’opportunità per educare il pubblico a proposito del suicidio;
2. evita un linguaggio sensazionalistico, o che presenti il suicidio come un fatto normale, o ancora che lo presenti come una soluzione dei problemi;
3. evita di presentarlo in posizioni di particolare evidenza e non riproporre più volte, senza motivo, le storie di suicidi;
4. evita di descrivere in maniera esplicita il modo usato per togliersi la vita o nei tentativi di suicidio;
5. evita di descrivere in modo dettagliato i luoghi scelti;
6. usa con attenzione le parole nei titoli;
7. sii cauto nell’uso di foto e filmati;
8. usa particolare attenzione nel descrivere il suicidio di persone celebri;
9. tieni nella dovuta considerazione i parenti e gli amici dei suicidi;
10. fornisci informazioni su dove è possibile chiedere un aiuto;
11. ricordati che gli stessi giornalisti possono essere influenzati nel raccontare casi di suicidio.
Anche le semplificazioni secondo l’Oms possono essere dannose. Chi sceglie di uccidersi non lo fa mai per una ragione sola riassumibile in poche righe di cronaca, ma per un complicato intreccio di sentimenti, pensieri, stati d’animo, eventi e concause che si sono accumulati fino a creare un peso insostenibile.
Ecco perché cercare risposte, in questi casi, non può e non deve essere compito del giornalismo, che se davvero vuole fare la sua parte deve chiudere gli occhi su chi non c’è più e ricordarsi della profonda responsabilità che detiene nei confronti di chi c’è ancora. Perché se G. non possiamo più salvarla, la sua storia serva almeno a insegnarci qualcosa. Foto: l’immagine di copertina è un manifesto anonimo circolato in città poche ore dopo la tragedia.
Buongiorno sono pienamente d’accordo con quanto letto in questo articolo. Anche io ho notato che per questa orribile vicenda la stampa aveva un atteggiamento esagerato. Mi trovavo per puro caso in via Carlo Alberto nel momento in cui sono arrivati ambulanza e forze dell’ordine e nessuno capiva cosa stesse succedendo. Dopo neanche mezz’ora già leggevo pezzi di notizie che descrivevano particolari tanto dettagliati e intimi che mi hanno disgustato perché avevo chiaro che certe informazioni non potevano già essere dedotte dalla scena del crimine ma che intanto già circolavano. Senza tener conto che la madre della ragazza stava allora ricevendo la triste notizia. Purtroppo viviamo in un mondo a caccia di like costi quel che costi.