La dimensione organicamente cosmica della danza. Intervista al coreografo Virgilio Sieni
NAPOLI. Ho incontrato Virgilio Sieni al Teatro Politeama, poco prima della prima di “Paradiso”, il suo nuovo spettacolo ispirato alla Divina Commedia, inserito nella rassegna del Campania Teatro Festival 2021 diretto da Ruggero Cappuccio. Sieni, toscano, fiorentino per la precisione (e quando gli parli non puoi non dedurlo), è un coreografo ed un danzatore, protagonista della scena italiana ed internazionale sin dagli anni ’80, che ha saputo esplorare il panorama della danza contemporanea e farlo dialogare con altre forme d’arte ed espressione.
Quello utilizzato da Sieni è un linguaggio danzante particolare e poetico, che lavora su gesti e risonanze e che guarda al corpo come ad un luogo capace di accogliere, creare, rimandare, trasmettere per pervenire ad un modo di fare coreografia assimilabile ad un lavoro di tipo archeologico.
Viene dall’architettura Sieni, e si vede: nelle sue creazioni, nel suo modo di approcciare le composizioni, nelle sue idee; e viene da uno studio di tutte le tecniche di danza, perché alla creazione di un movimento ed un linguaggio personali si arriva studiando, conoscendo, assorbendo, esplorando.
L’ho incontrato, dicevo, nella platea del teatro. Era sotto il palco che ripeteva lentissime sequenze di movimento, mentre attorno c’era fermento per la prima, lui era calmo e si muoveva lento e concentrato. La sua addetta stampa mi dice che è pronto per l’intervista e ci posizioniamo.
Conoscevo già Virgilio, ho partecipato come danzatrice ad alcune sue residenze, ci siamo scambiati opinioni ed ho visto molte sue produzioni, ciononostante l’effetto che ti fa quando ti si avvicina è sempre lo stesso, qualcosa di impalpabile che non riesci a definire, come un’aura di autorevolezza, ma rassicurante.
Saranno i suoi profondi occhi azzurri che sembrano guardare più lontano, sarà il suo volto, serio anche quando sorride, sarà che sai che rappresenta un bel pezzo di danza italiana e non solo, eppure lui è cordiale e disponibile, il confronto gli piace, mi chiede di me, mi fa domande, poi ci accomodiamo e le domande le faccio io. Eccole.
La tua è una ricerca che parte dal corpo, dal gesto, dalla tattilità, per arrivare alla danza come azione poetica. Quanta parte in questa ricerca è istinto, improvvisazione, sperimentazione e quanta invece sublimazione artistica?
«Nell’arte del corpo, dunque nella danza, niente è scisso dall’altro. Quando si parla di gesto ci si riferisce ad un gesto non produttivo, dunque un gesto non quotidiano, cioè tutto quello che l’essere vivente può fare attraverso le sue articolazioni. Nel caso del danzatore c’è un’affinità con tanti codici e quindi il danzatore si prepara a delle lingue, nel nostro caso lavoriamo molto sui concetti di articolazione, incrinatura, attenzione, ascolto allo spazio tattile attorno al corpo: in questa dimensione le tecniche vengono rielaborate approdando ad una dimensione umana di comprensione e consapevolezza verso il corpo».
Nelle tue produzioni hai spaziato molto cercando spesso l’interazione con altre forme d’espressione artistica e non (pittura, letteratura, architettura, filosofia): come nasce in te l’ispirazione coreografica? Parti da un impianto drammaturgico o dalla scrittura scenica stessa?
«Nel lavoro è sempre difficile trovare il punto d’origine, siamo balbuzienti nel momento in cui cerchiamo di dare origine ad una cosa, non siamo in grado, come esseri viventi, di dire “questa è l’origine”, per cui posso solo dire che l’interesse del corpo è un interesse spirituale, la ricerca del corpo in movimento nasce da un ascolto che comprende un mondo poetico che include tutte le altre arti: plastiche, figurative, architettoniche, letterario-filosofiche, perché sento che tutto fa parte di una dimensione organicamente cosmica, allo stesso tempo a volte sei richiamato da altre situazioni».
Situazioni che sono contingenti e richiamano una situazione più immediatamente umana, oltre quella enorme, spirituale, cosmica cui ti riferivi prima?
«Come esseri viventi abbiamo sempre bisogno di un punto di partenza, quindi c’è questa dimensione di risonanza tra quello che è un ascolto e quello che serve a delineare un tuo percorso. A volte sì, nasce da una riflessione su alcuni testi come il “De rerum natura” o la “Commedia” di Dante, che non si possono definire testi tout court, ma sono delle vere esplorazioni nel mondo degli esseri viventi».
In quest’esplorazione ti sei confrontato anche con la filosofia, collaborando con il filosofo Agamben. Mi interessava capire se pensi che la danza possa farsi espressione fisica di un contenuto di tipo concettuale?
«Io non parlerei di concetto, parlerei esclusivamente di tutto quello che è il pensiero dell’essere umano, quindi la danza ha a che fare con l’archeologia dell’essere umano, con quello che lo ha formato e quello che è il suo stare nella contemporaneità. La danza è pura filosofia, con Agamben il discorso era estremamente fisico da questo punto di vista: la filosofia è fisica, non ha niente a che vedere con tutto quello che si intende per concetto, semmai è pensiero, è riflessione, è approfondimento. La filosofia ci viene incontro sorridendo, esprime una sua leggerezza nel momento in cui si esprime esattamente come la danza e cioè disarticola tutto ciò che è estremamente rigido, disarticola e smargina per creare la “terza cosa”. Noi siamo abituati a vedere uno scimmiottamento delle cose che vanno di moda e non ad un approfondimento legato ad una riflessione: detto questo, anche le mode, evidentemente, nella loro origine hanno a che fare con momenti sorgivi assolutamente inediti e dopo, nell’uso che ne fanno le persone, che diventano un elemento vuoto».
Sono d’accordo, credo anch’io che una concezione della filosofia come puro concetto sia del tutto superata.
«La filosofia ha a che fare con il percorso della vita. Il filosofo è colui che danza – nietzscheano, ndr – è uno sciamano e non si adegua».
Parliamo dello spettacolo che sta per andare in scena: si ispira alla Divina Commedia, ma dichiaratamente non si tratta di un tentativo di trasfigurare in movimento la parola dantesca, dunque in che modo ha agito l’ispirazione dantesca nel processo di scrittura coreografica?
«La Commedia è irrappresentabile dal mio punto di vista. La Commedia è parola, è verbo e dunque quello che noi facciamo non è una trasfigurazione, ma un modo di incarnarla, è un lavoro che si basa su un’attenzione rivolta ad alcuni semplici dettagli del Paradiso che sono legati alla vicinanza con le cose, la natura, il mondo, quindi è stata un’esperienza con il mondo della natura principalmente e anche con il mondo delle cose materiali come il corpo. Il Paradiso è principalmente amicizia e capacità di liberare il corpo per una sospensione».
Quindi avete lavorato tenendo questo come elemento cardine?
«Sì, tieni conto che il lavoro non è esclusivamente lo spettacolo, ma ha a che fare con tante altre esplorazioni che sono avvenute l’ultimo anno».
Infine, volevo chiederti una tua riflessione sulle ripercussioni della situazione pandemica nel mondo della danza.
«Il mondo della danza, come la cultura in generale, ha sofferto molto per questo concetto di distanziamento. Per quanto riguarda il danzatore, evidentemente, in questo momento storico ha a che fare con qualcosa di rivoluzionario, può mettere assolutamente a frutto non un adeguamento a ciò che è definito come distanziamento sociale, ma un proliferare di tutto un concetto di vicinanza e di tattilità e quindi elaborare le proprie tecniche da questo punto di vista».
Lo ringrazio perché non si risparmia nelle risposte, ci salutiamo, fra meno di un’ora, in scena, il Paradiso, l’ultima creazione di Virgilio Sieni. Io sarò ad applaudirlo, sono abbastanza certa che mi piacerà.