Una danza intelligente che sa arrivare al cuore. Intervista al coreografo Roberto Zappalà
NAPOLI. Non avevo mai incontrato di persona Roberto Zappalà prima d’ora. È successo in occasione del Campania Teatro festival e della prima assoluta di Rifare Bach, la sua nuova produzione. Quando sono arrivata in teatro lui era impegnato con le prove, voleva rivedere alcuni passaggi prima di andare in scena. Ho intravisto il suo volto fare capolino dalla prima quinta, appariva sereno, molto distante dai volti cupi e seriosi di chi teme la prima messa in scena.
Ha fatto le ultime raccomandazioni ai danzatori sorridendo e ad un certo punto è comparsa una busta contenente regali a tema con lo spettacolo. La sua addetta stampa mi ha detto che è sua abitudine fare regali a tutti all’esordio di ogni nuovo lavoro e per “tutti” si intende tutti coloro che hanno un ruolo di qualsiasi natura nella produzione: danzatori, tecnici, collaboratori, addetti stampa.
Questa cosa me lo ha fatto sentire subito vicino: quando crei qualcosa diventa anche degli altri e non tutti sono in grado di riconoscerlo e di esserne grati, presi dalla boria narcisistica ed autoreferenziale della propria arte. In questo caso i regali sono delle t-shirt sulle quali campeggia la scritta: una sola vita, una sola terra. Le indosseranno a fine spettacolo i danzatori, durante i ringraziamenti: si inchineranno così al pubblico, perché quella scritta è anche il messaggio che Rifare Bach intende mandare e magari anche qualche spettatore più distratto, capirà.
Zappalà è catanese e questi slanci mostrano la sua provenienza da una terra pulsante come quella sicula. Proprio a Catania ha fondato nel 1989 la Compagnia Zappalà Danza, una delle principali realtà della danza italiana, della quale è direttore artistico e coreografo principale.
Abbiamo parlato di questo e di altro una volta accomodatici in platea per un’intervista che è diventata una chiacchierata ed un confronto, come può accadere solo con chi è veramente consapevole e padrone di quello che fa.
La sua è un’attività ultratrentennale, ha attraversato la danza contemporanea italiana, e non solo italiana, senza mai strizzare l’occhio alle mode, cercando sempre il gusto. Se volessimo dare un’etichetta alle sue produzioni, quella di “danza d’autore” sarebbe la più pertinente. Com’è stato dal suo punto di vista, dall’interno, questo percorso attraverso la storia recente della danza italiana e non?
«È una cosa strana: alcuni mi considerano troppo di ricerca, altri troppo classico; questo fa capire come ci sia grande confusione. Io credo che la cosa più importante sia la qualità delle cose. Come diceva qualcuno, che sarebbe se non sbaglio Mozart o Beethoven, c’è la musica bella e l’altra. Succede anche nella danza: c’è la danza fatta bene e l’altra; non è detto che la mia sia fatta bene, ovviamente. Non è solo una questione di gusto, ma anche di linguaggio. Il linguaggio che abbiamo curato negli ultimi vent’anni si chiama MoDem, movimento democratico, che ha dei suoi codici specifici, tanto che ci sono anche momenti di formazione ad hoc, rivolti a danzatori già professionisti, e questo è stato il focus. Poi siccome io mi stufo facilmente e mi piace spaziare, ho fatto delle cose molto complesse sotto l’aspetto sia drammaturgico, che scenico, che illumino-tecnico, ma anche lavori molto più semplici, quasi costruiti in modo classico, come impostazione. Per esempio Rifare Bach ha un’impostazione classica perché è formato da duetti, trii, quartetti, ensemble, non c’è una grande drammaturgia scritta, ma ci sono delle suggestioni legate all’ambiente naturalistico, oltre a Bach, ovviamente. Certamente nell’arco di trent’anni il linguaggio è cambiato inevitabilmente, non è una questione di moda, ma di ritmi che sono nella società. Poi nella società catanese i ritmi sono sempre molto vulcanici, quindi questa è stata l’evoluzione».
Le sue coreografie vertono spesso su temi sociali, verso la dimensione intellettuale, ma che ci sia dietro un impianto drammaturgico o meno, emerge sempre una forte sensibilità per la ricerca estetica, un’attenzione al bello…
«È sintetizzato in una frase di Baudelaire che ho fatto mia da trent’anni: “glorificare l’immagine ancor prima che il significato”. Io miro ad andare molto di più al cuore del pubblico che al cervello, mi piace anche emozionare e non solo far capire e pensare. Questo è ciò che sento».
A parer mio, però, traspare anche una parte più intellettuale che è strettamente legata a quella più emotiva…
«Sì, c’è questa idiosincrasia per la quale qualcosa di più danzato, di più empatico, non debba essere intellettuale, non debba essere intelligente; in questo senso c’è una diatriba generale, ma le due cose sono legate».
Parliamo della genesi dei suoi spettacoli. Ha già qualcosa su cui lavorare quando arriva in sala o nasce tutto lì con i danzatori?
«C’è l’idea di partenza, che elaboro assieme a Nello Calabrò, il mio drammaturgo da vent’anni, e c’è un lavoro a monte che distribuisce poi le emozioni ai danzatori; adesso, ad esempio, stiamo lavorando sul prossimo lavoro che sarà fra un anno. Di danza invece non costruisco nulla prima, lo faccio sempre quando ci sono i danzatori perché mi viene più naturale».
Volevo chiederle anche di Scenario pubblico: è un luogo produzione, di ricerca, di promozione, di fermento creativo. Com’è nata una realtà così importante in terra siciliana, con le difficoltà che, ahinoi, riguardano tutto il sud Italia nel riuscire a creare luoghi di cultura che divengano di riferimento nazionale?
«Credo che siano stati tanti fattori. Innanzitutto la mia storia, che ha influenzato chi doveva prendere le decisioni; di pari passo la costruzione di una struttura che è nostra, della compagnia, non è donata dal Ministero o dalla Regione o dal Comune, che non è solo bella, ma anche tecnicamente molto strutturata, e infine la proposta che abbiamo fatto noi quando ci hanno chiesto se volevamo diventare Centro di produzione. Al sud si fatica di più, ma quando si riesce a fare una cosa non solo si ha molta più soddisfazione, ma si riesce a fare molto bene e spesso anche molto meglio degli altri. Non mi riferisco al mio caso, quello che voglio comunicare è che se le cose si vogliono fare, si fanno bene. Certo, noi abbiamo fatto una cosa bella tosta, perché una cosa è fare una compagnia e un’altra è fare una struttura di quel genere, una struttura soprattutto produttiva. Non è una scuola di formazione in senso classico, noi facciamo formazione solo del nostro linguaggio, facciamo dei periodi in cui danzatori si formano nel MoDem. Più della metà dei miei danzatori provengono da questo master di quattro mesi che facciamo ogni anno. Non è facile prendere un danzatore, anche bravissimo, e fargli avere subito questa sensibilità nel corpo. Io ho la necessità di avere delle persone magari meno brave tecnicamente all’inizio, però molto più sensibili a questo tipo di linguaggio. Facciamo delle audizioni in tutta Europa e scegliamo trenta ragazzi, sei dei quali vengono selezionati per la compagnia giovane, dove studiano il mio repertorio e, se è il caso, dopo un anno qualcuno entra in compagnia».
Lo spettacolo che sta per andare in scena per il Campania Teatro Festival si intitola Rifare Bach, dunque si ispira chiaramente alla musica del compositore. Quanto forte è stata l’influenza della musica nella costruzione della coreografia?
«All’apparenza il titolo porta a pensare che al centro ci sia la musica di Bach, ma il sottotitolo “La naturale bellezza del creato” porta a pensare altro. Si tratta di un lavoro che attraverso Bach mi ha ispirato anche a parlare di natura ed anche in maniera sottile di ecologia e di rispetto dell’ambiente – l’attenzione per i temi dell’attualità torna dunque anche in questa produzione, ndr –. Dal mio punto di vista non esiste qualcosa di veramente astratto, tutto nasce dal cuore, quindi anche questo spettacolo non è astratto assolutamente. È classico nella sua impostazione generale, non come linguaggio, è stato ispirato ovviamente dalla musica di Bach, perché era una dedica che io volevo fare da tanto tempo e perché è tanto tempo che uso tanti brani di Bach, ma è in sinergia con un pensiero che avevo dentro e che si è acuito. Ho iniziato a lavorare su questo prima del primo lockdown, ma si è acuito molto durante il lockdown. L’ascolto della natura è stato all’ennesima potenza un po’ per tutti. Io ho vissuto tre mesi in un bosco in pieno Etna, ho percepito tante sensazioni e quindi è stato un percorso assolutamente lineare. Non è che pensi moltissimo alla musicalità della musica e quindi all’appoggio automatico della danza: alcuni brani di questo lavoro, ad esempio, li ho costruiti con la musica hip-hop; non è nel mio stile creare sulla musica, spesso uso i ritmi che faccio con la voce e dopo faccio un lavoro di attenzione assoluta sulla musicalità che può essere anche dissonante. Poi Bach si presta a tutto: è stato un compositore meraviglioso, per me, ma credo per tutti gli artisti che fanno i coreografi».
Ce ne dovrebbero essere di più di artisti che fanno i coreografi come Roberto Zappalà, perché da questo tipo di sensibilità, da questo tipo di empatia non si dovrebbe prescindere mai, se davvero si intende fare arte.