Diptych: un viaggio dietro le porte mancanti e dentro le stanze perdute dei Peeping Tom
NAPOLI. Ci sono volte in cui le parole non bastano, probabilmente si danza per quello: questa è una di quelle volte. Provare a raccontare col medium limitato della parola ciò che i Peeping Tom hanno portato in scena con lo spettacolo “Diptych: the missing door & the lost room”, in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 17 al 19 dicembre 2021, è un’impresa tutt’altro che facile.
La sensazione è quella di restare incollati alla poltrona, col fiato sospeso, perché quello che accade lì, sotto i nostri occhi, ha realmente dell’incredibile.
I Peeping Tom, compagnia belga unica nel suo genere, approdano per la prima volta a Napoli con questo spettacolo che è un remake di due piéce create in origine per il Nedelands Dans Theater da Gabriela Carrizo e Franck Chartier, i fondatori della compagnia.
Si tratta di uno spettacolo visionario, intrigante, straziante, dal sapore fortemente cinematografico. E in effetti in quei 55 minuti persi nel tempo e nello spazio dell’incredibile assieme ai protagonisti della performance, l’impressione è più volte quella di essere al cinema, vuoi per l’allestimento scenografico, vuoi per il modo seguito dalla rappresentazione che ricorda quello dei thriller a sfondo psicologico, vuoi per quei riflettori piazzati in scena ad illuminare la scena stessa, ma soprattutto perché pare impossibile che ciò che accade in scena, stia accadendo in tempo reale, senza essere frutto di un meticoloso lavoro di montaggio. Eppure sta accadendo, ne siamo testimoni.
Appaiono come mancanti i personaggi, scomparsi come dietro quelle porte che vivono di vita propria e che li portano chissà dove (The missing door), e appaiono persi, come la stanza in cui ci risucchiano, trascinandoci nel mondo allucinato e allucinante che sanno creare (The last room).
Parlare di una vera e propria drammaturgia sarebbe inappropriato, quello che accade sono piuttosto frammenti di storie, desideri rimossi, memorie e sensi di colpa proposti in un capolavoro noir, per il quale potremmo scomodare, senza star esagerando, il termine avanguardia.
Anche i personaggi non sono definiti, ci suggeriscono dei legami, delle relazioni, ma non ce le dichiarano, lasciandoci sempre al di là di qualcosa che ci sfugge e che possiamo soltanto supporre, come in una seduta di psicoanalisi in cui affiorano ricordi passati con cui fare i conti, come in un flusso di coscienza, come in un insondabile abisso di freudiana memoria in cui si ha paura di andare a fondo, come in un labirinto ipnotico in cui ritrovarsi appare impossibile.
Abbiamo dei fatti di cui gli antefatti ci sono ignoti: un omicidio, una madre distrutta, delle coppie che non si trovano; non è possibile assemblare il tutto, averne uno sguardo d’insieme, quello che abbiamo invece è il risultato di questi eventi, la situazione emotiva in cui si trovano i protagonisti a seguito di essi, la paura, il dolore, la paralisi, l’orrore, la follia.
Entrambe le pièce sono ambientate in degli interni cupi ed angoscianti: un appartamento con una serie di porte nel primo pezzo, porte che sbattono e che trascinano via i corpi, che li lasciano risucchiare dalla gravità, che li portano altrove, che quasi li governano; una stanza nella pièce successiva, con un letto carnivoro, che inghiotte, frammenta, risucchia e governa anch’esso i corpi, tanto che l’unica coppia che riesce davvero a congiungersi, danzando un lungo amplesso che è forse l’unico momento pieno, vitale, dello spettacolo, in cui i corpi sono soggetti e non oggetti, su quel letto non si poggia mai.
Le due scenografie sono smontate e rimontate in scena, a sipario aperto, dagli stessi interpreti e da tecnici che dal nulla compaiono in scena, come parte dello spettacolo, riuscendo a tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore.
Sono corpi che non hanno volizione, che non riescono ad autogovernarsi, che si ribellano a loro stessi, non rispondendo ai comandi, piuttosto rispondendo a una forza superiore, indefinita, che li fa volare, cadere al suolo, ritrovarsi lontani, sparire e comparire, che li blocca, che li rende vittime degli oggetti che vorrebbero adoperare.
Questo non sarebbe possibile se gli interpreti non avessero la padronanza, la capacità tecnica ed interpretativa, l’incredibile qualità che invece hanno: sanno torcersi e contorcersi, restare sospesi, dimenarsi, inarcarsi, saltare con una qualità di movimento assolutamente peculiare e meravigliosa.
È un mondo crudele e senza pietà quello che crudamente si offre al nostro sguardo, in cui i protagonisti non sono capaci di autodeterminarsi ed appaiono nitidamente atterriti e disperati, con un pathos espressivo di altissimo livello.
Per entrare nel loro universo distopico bisogna evitare di cercarvi un senso logico, piuttosto bisogna lasciarsi andare assieme a loro, sentirsi parte di quest’universo ostile, abbandonarsi, entrare in questo mondo visionario, onirico ed inquietante in cui ci si chiede ripetutamente cosa fare per essere abbastanza e si resta al di qua della domanda, senza arrivare a formulare una risposta, come in una dimensione squisitamente filosofica, in cui ciò che conta è l’interrogazione stessa.
Tutto ciò che possiamo fare è provare a sentirli, sentire le loro lacrime e la loro solitudine, percepirne anche l’ironia che compare qua e là, tra le pieghe del tragico, diventare voyer (Peeping Tom è traduzione inglese del termine) e continuare ad esserlo fino in fondo, ed oltre la fine, perché anche dopo i ringraziamenti, dopo gli scroscianti applausi, il sipario non si chiude, ed ancora a scena aperta loro sono lì, a smontare tutto, come in un teatro nel teatro. In fondo la vita è tutta una scena.
Coreografie e regia: Gabriela Carrizo e Franck Chartier; Interpreti: Konana Dayot, Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Wan-Lu Yu. Produzione: Peeping Tom.