Riabbraccia la famiglia a Pompei dopo 13 anni: la storia di Hilal, “kamikaze mancato”
POMPEI. Si chiama Hilal Hamisi e oggi ha 26 anni: vive a Roma, dove lavora come responsabile di “Sushi Daily”, un franchising alimentare. Aveva solo 9 anni quando i talebani gli ammazzarono il papà per vendetta, provando poi ad addestrarlo come bimbo kamikaze.
Era il suo “risarcimento” da riconoscere al regime per aver “tradito” il Corano. «Alla fine – dice – mi sono ribellato, ho scelto la vita e la libertà. È la stessa strada che ora voglio far conoscere al mio fratellino e a mia mamma» che ha incontrato a Pompei dopo 13 anni.
«I talebani – racconta – volevano che diventassi uno dei loro bimbi kamikaze. Prima uccisero mio padre, che stava con gli americani. Poi, subito dopo, mi infilarono un sacco nero sulla testa, portandomi in un campo di addestramento vicino casa. Si trovava a Nangahar, in Afghanistan. Più provavo a ribellarmi, più dicevo di non voler farmi esplodere per aria, e più mi torturavano. Mi versavano l’olio bollente addosso, mi picchiavano a sangue».
Poi la svolta: «Dopo dieci mesi – ricorda ancora Hilal – io e un mio amico riuscimmo a scappare, attraversando un lago in piena notte. L’acqua era gelida, faceva un freddo cane. Io sono sopravvissuto. Il mio amico non l’ho più visto. Ora sono in Italia. Con i talebani di nuovo al potere, non metterò mai più piede in Afghanistan. Dopo vent’anni di guerra fatta dagli Occidentali, nel mio Paese l’odio è rimasto lo stesso».
Incontriamo Hilal, il kamikaze mancato, davanti al Santuario di Pompei. È qui che ha scelto di riabbracciare suo fratello, Shaed, insieme a mamma Nazifa: non indossa il burqa, ma l’hijab, il velo che copre capo e spalle.
La famiglia afgana ha potuto riabbracciarsi, davanti al Santuario di Pompei, dopo 13 anni di attese, silenzi, burocrazia elefantiaca: una corsa a ostacoli tra visti per l’espatrio mai ottenuti, passaporti consegnati dall’ambasciata di Kabul, che ora è a Doha, dopo decine di inutili richieste.
Il ricongiungimento familiare è stato infine reso possibile grazie a un avvocato di Pompei, esperto in diritto internazionale, il giovane Carlo Michel Giordano. «Ero disperato, volevo portare in Italia mia mamma e Shaed – racconta Hilal – averli riabbracciati è per me la fine di un altro incubo».
Hilal, Nazifa e Shaed hanno scelto il Santuario di Pompei per la prima foto scattata insieme dopo tredici anni. Ad accoglierli in piazza Bartolo Longo, una domenica di fine novembre, c’erano l’avvocato Giordano e la sua compagna, Annalisa Paduano.
A spingere per l’incontro della famiglia in città è stato anche l’assessore comunale alle Politiche Sociali, Vincenzo Mazzetti. La famiglia è ripartita subito per Roma, dove Hilal, cittadino italiano, ha affittato un monolocale vicino Ladispoli. L’ultimo dramma è stato sfiorato poco prima che mamma Nazifa e il piccolo Shaed prendessero un aereo, partendo da Bergamo per arrivare a Pompei.
«Mia mamma e mio fratello hanno atteso il volo, dormendo in un Hotel, il Serena, che è molto popolare, ed è vicino a Kabul. Erano stati avvisati di essere prudenti». E infatti, due giorni dopo la loro partenza, una bomba piazzata vicino all’hotel ha fatto 35 morti.