Quando Carmen Consoli voleva fare la rockstar
NAPOLI. Ho visto molti live di Carmen Consoli, ma nessuno come quello al Teatro Augusteo di Napoli. È un freddo martedì sera di novembre (A.D. 2021), il 16 per la precisione, ed il teatro è gremito (è la prima volta in cui rivedo un teatro pieno da quando la capienza è tornata al 100%), ciononostante l’atmosfera è estremamente intima.
Carmen Consoli appare sul palco imbracciando una chitarra acustica e, delicata e malinconica, canta di quando voleva fare la rockstar, perdendosi nel ricordo di domeniche in campagna a casa dei nonni.
Io me la ricordo negli anni ‘90: il video di Amore di plastica mi apparve per la prima volta proprio nel televisore a casa del nonno in campagna. Mi apparve come un inno all’indipendenza femminile in un’era in cui le donne della musica italiana si struggevano per uomini che non le volevano; adesso era lei finalmente a non volere lui, a non volersi accontentare.
Era una donna con la D maiuscola ed orgogliosamente “mediamente isterica” che calcava palchi ad assoluta predominanza maschile con una Fender nera e rosa shocking. Era Courtney Love, ma meglio: più sostanza, meno apparenza, mora, non bionda.
Cantava di sentirsi “triste, annoiata e asciutta” al cospetto del lui di turno, quando nessuna donna aveva mai cantato in Italia il sesso in maniera così esplicita e naturale. Cantava con rabbiosa coscienza del feroce decadere delle illusioni nella crescita ed era quello che succedeva a noi: ciò che ci disilludeva, ci rendeva più forti.
Aveva una durezza selvatica eppure delicata. Era una donna in un mondo di uomini che si faceva chiamare “cantantessa” e suonava una chitarra elettrica rosa. Era una rockstar. Oggi è cresciuta e si concede la malinconia e una nuova, più lucida consapevolezza, si concede il dolore di guardare indietro. E lo fa magistralmente.
Il concerto è diviso in tre atti e si apre con Il sogno, in cui la Consoli, accompagnata soltanto da una seconda chitarra, suonata da Massimo Roccaforte, suo sodale da sempre, presenta la canzoni del suo ultimo album, il nono in studio, intitolato, appunto, Volevo fare la rockstar.
La dimensione creata è sognante ed estremamente intima, dietro di lei, video e foto a sottolineare le canzoni e giochi di luce atti a rendere il concerto perfettamente adatto alla dimensione teatrale.
Carmen Consoli apre la sua scatola dei ricordi e ci fa commuovere, ci seduce, ci ammalia, ci accompagna con dolcezza a mangiare panini al latte e ci porta con lei nelle domeniche in campagna a raccogliere olive, ci fa tornare bambini sul tavolo della cucina immaginando di essere su un palco.
Ci perdiamo con lei, nei suoi ricordi, fino a confonderli coi nostri: le scuole elementari dalle suore (sì, le ho fatte anch’io!), i giochi all’aperto con i cugini da piccoli, l’Italia che vince i Mondiali, le faide della malavita organizzata rivisitate dal subconscio infantile che non poteva concepire quell’agghiacciante realtà.
I suoi sono i ricordi d’infanzia di una bambina cresciuta nella Sicilia degli anni ’80 che sognava di fare la rockstar e scappare in America masticando gomme alla fragola.
Ci canta la sua storia, Carmen Consoli, ed anche la Storia con la “S” maiuscola, che intanto si scriveva mentre lei cresceva; ci canta la società com’è diventata oggi che quella bambina è divenuta adulta, il mondo in cui è difficile insegnare a stare a suo figlio, oggi che quella bambina è diventata madre, le commoventi domande mai poste al padre scomparso, perché anche da genitori, non si smette mai di essere figli.
Un accenno a Seven Nation Army dei White Stripes e ci ritroviamo immersi ne Gli anni mediamente isterici del secondo atto. L’atmosfera cambia immediatamente: tutto diventa energico, trepidante, irruento e spunta una sorprendente Marina Rei nell’insolita veste di batterista.
Carmen Consoli è ora quella dei miei ricordi di ragazzina, quella con i capelli corti corvino, la pelle chiarissima e le labbra rosso carminio, quella arrabbiata e intensa che non faceva sconti a nessuno, quella con quel modo di cantare così personale e strano, quella che sfidava i pregiudizi, quella che aveva fatto del suo essere donna un elemento fondamentale del suo essere artista, quella che era tanto rock, incazzata e femmina da sembrare un’anomalia nel panorama musicale italiano degli anni ’90.
La bambina che da piccola, nell’atto precedente, aveva sognato di fare la rockstar, da grande ci era riuscita. (Quello della sua infanzia era un mondo in cui era ancora possibile sognare, oggi la realtà è tristemente diversa).
Segue il terzo ed ultimo atto intitolato L’amicizia che si apre con un commovente omaggio a Franco Battiato ed una meravigliosa Stranizza d’amuri. Carmen Consoli è ora una sposa lasciata all’altare, è quella che non si fa raggirare dalle parole di burro di alcun Narciso, quella dell’ultimo bacio tra violini suonati dal vento e lacrime che solcano il viso. Si celebra l’amicizia e con lei sul palco ci sono Roccaforte che suona il mandolino e la Rei alle percussioni.
Suona tantissimo Carmen Consoli e mi sembra bellissimo, perché non mi ricordo nemmeno più da quanto tempo non andavo ad un concerto, non me lo ricordavo più che significa essere tutti assieme, una cosa sola, una stessa emozione, quella sensazione di coesione totale che si prova solo ai concerti, di aderenza perfetta al tutto, quel sentimento collettivo, quella partecipazione emotiva totalizzante; ma non basta e torna anche per i bis.
La standing ovation finale è meritatissima e meravigliosa, una scena che riempie gli occhi, col pubblico adorante e lei, bellissima come una rockstar che gode della partecipazione così sentita e concede autografi e riceve fiori. Non c’è dubbio, anche se ha deposto la Fender rosa shocking, è sempre una rockstar.