Un live degli Zen Circus per tornare a credere alla collettività
PARETE. Sono tornata la sera del 28 luglio da alcuni giorni in Sicilia ed il regalo migliore che la mia regione potesse farmi al rientro è stato il Circo Zen, che tornava finalmente a farsi un giro in Circumvesuviana: “Facciamo un giro sulla Circumvesuviana, mentre il vulcano sputa questa luna piena”, cantavano ne Il fuoco in una stanza. Vai a capire poi perché, noi che ai piedi del vulcano ci abitiamo, della Circumvesuviana pensiamo tutto il male del mondo.
Anyway erano 5 anni che gli Zen Circus – Andrea Appino (voce e chitarra), Massimiliano “Ufo” Schiavelli (basso), Karim Qqru (batteria), Francesco Pellegrini (chitarra), Fabrizio Pagni (tastiere) – mancavano dalla Campania e ci sono tornati il 29 luglio in occasione dell’Eco Summer Festival, organizzato dall’associazione La Tenda a Parete (Caserta) con l’intento di promozionare la musica indipendente e sensibilizzare verso le tematiche ambientali.
Gli Zen Circus sono una delle realtà più valide del panorama rock italiano e vederli dal vivo è sempre una garanzia: la dimensione live, infatti, gli appartiene in maniera peculiare. Sarà frutto della lunghissima gavetta e dei loro tour infiniti o delle radici da buskers, fatto sta che quando suonano dal vivo gli Zen Circus sembrano essere a casa loro.
Guadagnano il palco con l’entusiasmo di quando si arriva ad una festa, inforcano gli strumenti e senza preamboli aprono il concerto con La terza guerra mondiale – potrebbe sapere di retorica, non fosse che l’hanno scritta un po’ di anni fa – seguita immediatamente dopo da Catene e la sempiterna Non voglio ballare. E già questo basterebbe, ascoltare per credere.
Il pubblico campano, orfano da molto tempo della band, la accoglie con calore. È un pubblico eterogeneo, composto da almeno un paio generazioni. Quanti musicisti non così avanti con gli anni possono vantare un pubblico altrettanto intragenerazionale? Solo quelli che non seguono le mode, credo. Ed è un gran bene.
Gli Zen Circus sono una band e si vede da come stanno sul palco. Essere una band è un concetto, prima ancora che una suddivisione di ruoli ed è precisamente questo che si vede: Appino non è un frontman, gli Zen Circus esistono tutti insieme, ed è qualcosa di bello in un mondo di rockers compiaciuti e primedonne.
C’è un’aria diversa, come un senso comunitario, c’è sul palco tra loro, sotto il palco tra il pubblico e c’è anche tra il pubblico e loro, a dispetto di quella collettività alla quale Appino canta di non credere più, per poi urlare «Non è verooooo!» subito dopo aver cantato il verso suddetto. E che non è vero si vede, eccome.
Il concerto prosegue tra pezzi che sono dei classici nella storia della band ed altri tratti dagli ultimi album con i nostri che mandano amabilmente affanculo il pubblico, si danno e gli danno degli stronzi, sono caciaroni, hanno una forza tutta loro, peculiare, una sorta di forza dell’incoscienza tipica di chi ha davvero necessità di fare qualcosa. Ecco, sembra che per loro star lì a suonare sia davvero un’impellente necessità.
È sempre rischioso parlare di necessità in ambito artistico, ma negli Zen Circus c’è davvero quell’urgenza, si sente da come suonano, si sente che è viscerale, e quando una cosa è vera, carnale, non puoi non riconoscerla, la senti pulsare e in un mondo di tormentoni costruiti a tavolino e persino di artisti costruiti a tavolino, è una fottutissima cosa bella.
Immancabili le hit Figlio di puttana e Vent’anni o brani fondamentali come Andate tutti affanculo, che ha decretato definitivamente il loro successo nazionale, classici come L’anima non conta o il brano sanremese del 2019 L’amore è una dittatura, brano che meno sanremese di così non poteva essere, nemmeno a volersi impegnare.
Ma c’è spazio anche per richiami ai loro esordi da buskers, esplicitamente rievocati su Ragazzo eroe, con Karim che abbandona la batteria per suonare una tavola zigrinata di metallo.
Un concerto degli Zen Circus è un’esperienza diversa in cui essere pubblico, è un concerto in cui si può cantare fino a perdere la voce (La terza guerra mondiale, Voglio invecchiare male), ma anche rievocare ricordi (Canta che ti passa, Vent’anni), concedersi qualche malinconia (Ok boomer), ballare (Non voglio ballare, ossimori tutti loro), guardarsi dentro (Catene), sudare (sempre), pogare come non ci fosse un domani (Ilenia, Viva), ma anche commuoversi (Non, che suonata dal vivo ha una forza emotiva devastante), soffrire (Il fuoco in una stanza), riflettere (L’amore è una dittatura), emozionarsi (Caro fottutissimo amico, L’anima non conta), far dondolare accendini accesi verso il cielo (Appesi alla luna), sorridere sornioni (Andate tutti affanculo) e pure ridere (spesso).
La musica è tantissima, le parole meno, eccetto i siparietti tra Appino e Ufo; è una festa, loro lo dicono sempre, ci sono le chitarre elettriche, ma molto spesso anche quelle acustiche, Appino sul palco dondola suonando la chitarra, salta da una parte all’altra, si mette un asciugamano in testa e sta fermissimo mentre urla “Sei l’unica, sei il solo” sul finale de L’amore è una dittatura.
È un alternarsi di pezzi tirati e ballate che la vita ai tempi del Covid e della distanza fisica te la fa scordare, ma soprattutto è una medicina per l’anima, quell’anima che a dispetto del titolo del brano sembra contare tanto, forse troppo, venire fuori in maniera dirompente, prendersi anche un po’ della nostra e buttarla lì, nel caos, aspettando di vedere cosa viene fuori.
C’è una specie di etica della non etica, quello che risponde ad imperativi categorici per gli Zen Circus sa di dittatura, loro invece hanno tutto il gusto dell’anarchia, del fare tutto, fino in fondo, vivi, ma del farlo con l’anima che, appunto, conta.
Il palco sul quale salgono gli Zen Circus è uno specchio in cui guardarsi tutti dalla nostra più rifulgente bellezza alle peggiori brutture, il loro concerto è quasi una seduta di psicanalisi collettiva, ma presa dal verso giusto, che scavando scavando, finisce pure che ci ridi su.
È così un concerto degli Zen Circus, non c’è lirismo, non c’è afflato estetico, c’è una poetica diversa e forse anche più profonda, quella cruenta e diretta della realtà, una sorta di crudo realismo, come un sapore pasoliniano, qualcosa di dolente, ma non rassegnato, sanguinante, ma vivido, un cortocircuito di musica, parole, emozioni collettive, luci e fumo, spettri di padri e madri.
C’è tutto il sentire umano in un live degli Zen Circus e ci sono luoghi reali e fittizi, i vent’anni, i centri sociali, Guccini e De André, gli amici andati, il quotidiano eroismo di esserci, qualcosa di violento, la distanza da se stessi e la vicinanza agli altri, il bisogno di abbracci e di contatto, il sangue che gronda, la voglia di urlare, un malessere che sa affrontare se stesso con ironia, un disincanto che sa sorridere di se stesso, la vita addosso, la morte come inevitabile destino, gli sconforti, le sigarette (molte sigarette), le memorie d’infanzia delicatissime e preziose.
E lì sotto il palco ci si mischia il sudore, i sorrisi e le lacrime, ci si guarda dentro e intorno perché quegli adorabili sbandati hanno una ricetta tutta loro che sa generare una palpabile empatia, che fa venire fuori la rabbia e l’energia, le ferite mai rimarginate, i sogni del passato (che “sono ancora tutti là”, alla faccia del disincanto!), le malinconie, la realtà in tutta la sua brutalità, e che sa persino rievocare il momento della ricreazione a scuola di noi che a scuola eravamo quelli “strani” (e meno male! ).
C’è anche l’amore, ma finalmente cantato in maniera diversa, nessun uomo sofferente per la bella di turno come nella miglior tradizione melodica italiana, per intenderci, piuttosto l’amore come sentimento universale, e sopra ogni cosa l’ironia nell’affrontare anche le cose più dure, anche il dolore – sono toscani gli Zen Circus e quell’ironia ce l’hanno nei geni – ci sono i temi sociali trattati in maniera diversa, diretta, in prima persona, e i drammi personali, interiori, familiari, con i quali i primi si confondono dipingendo ritratti, narrando storie che possono essere di chiunque.
E come star lì a sbattersi in faccia le cose più intime per quell’arcano bisogno di condivisione che ci abita, è qualcosa di catartico, come una singolarità che diventa universalità, come un ritrovato senso comunitario.
Chiude il concerto Viva, con tutti che cantano in loop il verso finale: “Vivi si muore” (buona parte dei fan degli Zen Circus ce l’ha tatuato addosso). È proprio vero, vivi si muore, ma vivi! «Anche morti si vive – urla Appino prima di lasciare il palco – non fatelo mai!». Se c’è un posto dove tornare a credere alla collettività – a dispetto del verso del brano in questione – quel posto è proprio un concerto degli Zen Circus. Foto: Raffaele Bove.