Paestum, nuove scoperte dagli scavi nel quarto tempio dorico
PAESTUM. Il basamento in pietra con i gradini d’accesso e la delimitazione della cella che ospitava la divinità, le decorazioni in terracotta colorata del tetto con i gocciolatoi a forma di leone, una straordinaria gorgone, una commovente Afrodite.
Ma anche sette stupefacenti teste di toro, l’altare con la pietra scanalata per raccogliere i liquidi dei sacrifici e centinaia di ex voto tra cui spiccano le immagini di un eros a cavallo del delfino che la fantasia potrebbe rimandare al mitico Poseidon, il dio che ha dato il nome alla città.
Sono le sorprese che a Paestum stanno rivelando i lavori per riportare alla luce il santuario scoperto nel 2019 lungo le mura della città antica. Uno scavo, anticipa all’Ansa la direttrice del parco archeologico Tiziana D’Angelo, che promette di «cambiare la storia conosciuta dell’antica Poseidonia».
Quasi insomma come una finestra aperta su un frammento lungo 500 anni della vita della città che i greci di Sibari fondarono nel 600 a.C. e che poi passò sotto i lucani per diventare, alla fine, una colonia di Roma.
Davvero un contesto unico, che «accende una luce molto interessante sulla vita religiosa antica», applaude dal Ministero della Cultura il direttore generale dei Musei Massimo Osanna, ricordando che le ricerche archeologiche fatte a Paestum negli anni ’50, intorno ai templi maggiori, non furono scientificamente documentate.
Avviati nel 2020 e subito bloccati dalla pandemia, gli scavi sono ripresi da qualche mese: «Quello che oggi ci troviamo davanti è il momento in cui il santuario, per motivi ancora tutti da chiarire, viene abbandonato, tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C.», premette D’Angelo.
L’analisi delle decorazioni fittili ha permesso di datarne la fondazione nel primo quarto del V secolo a.C., quando nella colonia greca erano già stati costruiti alcuni dei più importanti edifici monumentali arrivati fino a noi, il tempio di Hera, edificato tra il 560 e il 520 a.C., e quello di Atena, che si fa risalire al 500 a.C.
Il tempio di Nettuno venne completato invece un po’ più tardi, nel 460 a.C., dopo una lunga gestazione. Di dimensioni molto contenute – misura 15,60 metri per 7,50 – con 4 colonne sul fronte e 7 sui fianchi, il tempietto è come gli altri in stile dorico, ma si distingue per la purezza delle forme.
«È il più piccolo tempio periptero dorico che conosciamo prima dell’età ellenistica, il primo edificio che a Paestum esprime pienamente il canone dorico», spiega Gabriel Zuchtriegel, l’ex direttore di Paestum oggi alla guida di Pompei, che ha appena dato alle stampe un corposo studio sull’architettura dorica.
«Quasi un modello in piccolo del grande tempio di Nettuno», che allora appunto doveva essere in costruzione, «una sorta di missing link tra il VI e il V secolo a.C.».
Molto importante, quindi, anche perché in qualche modo dimostra l’autonomia artistica e culturale della comunità e sconfessa chi ha sempre creduto che nelle colonie ci si limitasse a copiare le produzioni della madrepatria.
Straordinaria, però, è anche la distesa di oggetti ritrovati nello spazio che separa il fronte dell’edificio dall’altare, eretto come di regola all’esterno: statuette in terracotta con i volti degli offerenti o quelli delle divinità, addirittura 15 quelle con il piccolo eros a cavallo del delfino, templi e altari in miniatura.
Piccoli capolavori di artigianato che si aggiungono alle 7 teste di toro ritrovate intorno all’altare, forse “oggetti di scena” a disposizione di chi amministrava il culto.
E che sembrano essere stati poggiati in terra con devozione, «come in un rito di chiusura» ragiona D’Angelo, messo in atto quando il santuario, che pure continuò ad essere frequentato anche in epoca lucana e poi, dal 273 a.C., con l’arrivo dei Romani, cadde in disuso.
«Ogni giorno una sorpresa» sorride la direttrice attorniata dalla squadra di archeologi coordinata da Francesco Mele. Per capire di più, certo, ci vorrà tempo, serviranno studi, restauri, analisi di laboratorio.
Intanto si procede con le ricerche per documentare ogni periodo di vita del tempio fino ad arrivare al momento della sua costruzione, cercando anche di capire la dinamica che ha portato una parte delle mura a collassare sul retro dell’edificio.
Gli elementi di forte interesse «sono tanti», si appassiona D’Angelo. Come la firma – proprio su una delle statuette col delfino – degli Avili, «una famiglia di ceramisti di origine laziale, nota anche a Delo, la cui presenza qui a Paestum non era mai stata documentata».
O come l’ubicazione particolarissima di questo santuario, costruito nella città, sì, ma lontano dal centro e dagli altri templi, giusto a ridosso delle mura. Vicinissimo al mare, sul quale praticamente si affacciava: «Le navi che passavano se lo trovavano di fronte», fa notare.
Il pensiero va agli amorini sul delfino e a una moneta romana del III secolo a.C. che su un lato aveva proprio Eros a cavallo del delfino e sull’altro Poseidon. Che sia proprio questo il tempio intitolato al dio che ha dato nome alla città? D’Angelo scuote la testa: «È ancora presto per dirlo, ma l’ipotesi è estremamente interessante». Solo una suggestione, quindi. In attesa che gli scavi accendano nuove luci sulla storia.
«Il ritrovamento di centinaia di ex voto, statue e altari nel tempietto di Paestum conferma lo straordinario valore di questo sito e le sue grandi potenzialità sulle quali stiamo lavorando. Ogni scavo che riporta alla luce le testimonianze storiche del passato dimostra l’immensa ricchezza del patrimonio archeologico della nostra nazione di cui c’è ancora molto da scoprire» ha affermato Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura.